Una bandiera scolorita e tricolore sventola gagliarda nella piazza del paese. In una piazza vuota, con una panchina vuota con una bottiglia di birra, vuota, gettata al suo fianco.
In mezzo alla piazza il monumento ai caduti. Pieno di nomi e cognomi scritti sul marmo in lettere di ferro arrugginito. Giovani di questa terra che, si spiega con enfasi, sacrificarono la vita per la patria.
Anche loro migranti, chissà quanti di loro volontariamente e spinti da eroici furori, verso lontani fronti.
In questa stessa piazza vuota, due anni fa, a primavera, c’era invece molta vita.
C’erano tante tende azzurre. Si mangiava tutti insieme. Si parlava, non si stava mai soli.
Il bar, l’unico bar, che ora apre solo nei fine settimana, e più che altro per passione, era sempre gremito.
Lo scemo del villaggio – ogni paese che si rispetti ne ha almeno uno – visse momenti di gloria, e strappava risate, consensi e pacche sulle spalle. Anche chi da anni portava avanti faide familiari tramandate di padre in figlio, senza ricordare il vero motivo, aveva deciso per un miracoloso armistizio. Si racconta che due capi-clan arrivarono addirittura a scambiarsi una sigaretta e un grazie.
Il terremoto qui è stato come un eroe risorgimentale. Ha unito il paese. In modo brutale, d’accordo, ma è il risultato quello che conta.
Vennero poi tanti forestieri, e questa volta nessuno li fissava di sottecchi, con la tradizionale diffidenza. Vennero in molti, nei giorni seguenti il terremoto, con le divise e non, giovani fricchettoni e anziani conservatori, dal lontano nord e dall’estremo sud.
E tutti si scoprirono orgogliosi, o almeno stupiti, di sentirsi italiani. Quella bandiera scolorita che sventola al fianco del monumento acquistò allora un senso, anche senza partita della nazionale.
Perché quei forestieri vennero ad aiutare, volontariamente, senza doppi fini, se non per il bisogno di di sentirsi utili e per la sete di cose vere.
Qualcuno in fuga chissà dalla noia, dalla solitudine e dall’indifferenza che abita in certe tristi periferie.
Consapevoli che in un paese che detiene quasi il record mondiale per numero di burocrati, politici, consulenti e commissari ordinariamente straordinari, alla fine chi manda avanti la baracca, chi risolve le emergenze, sono i cittadini con il loro lavoro a titolo pressoché gratuito.
Furono la prova, quei forestieri, che gli italiani sono brava gente. Senz’altro di gran lunga migliori di certi bipedi urlanti e frivoli che scorrazzano nei palinsesti. E che forse arrivano da altri pianeti.
Sono passati due anni. I forestieri sono andati via. Mandano qualche cartolina ogni tanto. Una telefonata. Una visita di passaggio. Nel villaggio di legno costruito davanti a quello di pietre sparse, ci si comincia a sentire soli.
L’Italia sarà pure un’astrazione, ma se uno ora ne senta la mancanza, allora significa che da qualche parte deve pur esistere.
E’ strano, e nessuno osa confessarlo. Ma c’è nostalgia della tendopoli. Ora che tutti stanno ficcati dentro un Map, o un CASE. Come anacoreti sopra un albero in paziente attesa di un secondo miracolo aquilano. A guardare il paese che non c’è più.
Chissà se oggi, citando il filosofo Furbo da Pianola, si ha consapevolezza che ”ad un’ora di volo c’è la guerra, anche se qui c’è gente dal barbiere “, e soprattutto ci si ricorda ancora che ”a volte un bidello insegna più di un professore, un capomastro costruirebbe meglio di alcuni ingegneri e pane e prosciutto è più buono delle ricette degli chef.
Così può capitare che una città venga ricostruita meglio con le idee di semplici cittadini. Difficile e’ solo ammetterlo”.
Una vecchia, furba anche lei, osserva che il modulo abitativo provvisorio glielo hanno costruito più vicino al cimitero che al suo vicolo, alla sua cucina annerita dal fumo del camino, alla sua cantina che odorava di muschio e di mosto, alla panca di legno che la buonanima di suo padre aveva acchittato con una traversina della ferrovia, portata in spalla fino a casa. E questo può voler dire qualcosa.
Già la ferrovia… Anche il padre della vecchia è stato un padre della patria, a sua insaputa, con il sudore della fronte, e per un salario da fame, perché furono quelli come lui, italiani forti e gentili, a costruire la ferrovia, grande opera, una delle poche di cui davvero andare fieri, che ridusse le distanze tra le tante piccole patrie, spezzo l’isolamento dei mille campanili e borghi turriti.
Fu quel contadino diventato operaio che cominciò a fare l’Italia, in attesa che si facessero anche i viaggiatori e i controllori, i casellanti e i bibitari, i pendolari e gli emigranti.
Ora qui, cento anni dopo o giù di lì, in questa valle incantata e terremotata, passano sempre meno treni. L’Italia, quella di prima classe, quella che ha fretta e va veloce, è sempre più lontana.
Rami secchi sono le vie di comunicazioni per le aree interne, perché qui non sfreccieranno mai i treni carichi di merci e uomini d’affari. Non sarebbe un buon affare per nessuno investire a favore di quel 73% di territorio montano e impervio, in cui abita appena il 35% della popolazione abruzzese, in costante caduta demografica.
Dopo il terremoto, c’è il rischio che tanti giovani non resteranno a lungo in questo limbo di moduli provvisori. In queste lande lontane dalle suadenti e scintillanti luci della città.
Andranno via se non diventeranno subito concrete le prospettive offerte da una ricostruzione che potrebbe in fondo essere una grande occasione per queste terre marginali. Occasioni non solo per chi lavora in edilizia, ma anche per chi ha l’handicap rappresentato dall’aver conseguito una laurea umanistica, e che nel realizzare in loco i suoi sogni e suoi progetti, talvolta è costretto a scontrarsi e a soccombere davanti ad uno dei tanti vecchi, ottusi e stanchi burocrati e capintriti, che a mandrie governano queste montagne, contribuendo in fondo al loro spopolamento.
Come romantici garibaldini sul molo di Quarto forse si imbarcheranno anche loro, in cerca di gloria ed avventura, alla conquista di una nuova patria.